PIETRAROJA (BN), LA PATRIA DEL FOSSILE DI DINOSAURO "CIRO", FAMOSO IN TUTTO IL MONDO.
Pietraroja (o Pietraroia) sorge sulle pendici di Sudest del massiccio montagnoso del Matese, nell'Appennino meridionale.
È un comune di montagna di meno di 600 abitanti della provincia di Benevento, nella regione Campania al confine con il Molise.
Pietraroja ha un’altitudine media di 818 m s.l.m.; quella minima è di 450 m nella località Cesolla, ”, vicino al torrente “Torbido” (gliu trov'l' in dialetto pietrarojese), tra contrada “Pezzapiana” e contrada “Potete”, mentre l’altitudine massima è di 1.780 metri lungo la cresta del Monte Mutria, poco ad Est della cima del monte (1.823 m s.l.m.), denominata “mutricchio”: mutlìgliu in dialetto pietrarojese.
Pietraroja (o Pietraroia) sorge sulle pendici di Sudest del massiccio montagnoso del Matese, nell'Appennino meridionale.
È un comune di montagna di meno di 600 abitanti della provincia di Benevento, nella regione Campania al confine con il Molise.
Pietraroja ha un’altitudine media di 818 m s.l.m.; quella minima è di 450 m nella località Cesolla, ”, vicino al torrente “Torbido” (gliu trov'l' in dialetto pietrarojese), tra contrada “Pezzapiana” e contrada “Potete”, mentre l’altitudine massima è di 1.780 metri lungo la cresta del Monte Mutria, poco ad Est della cima del monte (1.823 m s.l.m.), denominata “mutricchio”: mutlìgliu in dialetto pietrarojese.
Pietraroja ha un’altitudine media di 818 m s.l.m.; quella minima è di 450 m nella località Cesolla, ”, vicino al torrente “Torbido” (gliu trov'l' in dialetto pietrarojese), tra contrada “Pezzapiana” e contrada “Potete”, mentre l’altitudine massima è di 1.780 metri lungo la cresta del Monte Mutria, poco ad Est della cima del monte (1.823 m s.l.m.), denominata “mutricchio”: mutlìgliu in dialetto pietrarojese.
Pietraroja (BN), lassù sui monti del Matese - Panorama da Est |
Il costone orientale del Monte Mutria segna il confine settentrionale del territorio comunale con quello di Guardiaregia (CB), mentre il passo di Santa Crocella (1.219 m s.l.m.) collega Pietraroja (BN) con Sepino (CB).
Sito al confine con il Molise, “Pietraroja” dista circa 50 km dalla città di Benevento (il capoluogo di provincia).
Fra il Monte Mutria e il passo di Santa Crocella , in località “Tre Valloni”, si trovano le sorgenti del Titerno, le cui acque scendono dal territorio pietrarojese nella conca del confinante comune di Cusano Mutri passando attraverso uno spettacolare canyon, stretto e profondo, detto “Stritto di Caccaviola” (da acqua viola), delimitato ad Est dalla formazione calcarea del monte Civita di Pietraroja (960 m s.l.m.) , su cui sorge il paesello di Pietraroja, e ad Ovest dal monte Civita di Cusano (976 m s.l.m.).
Cartina geografica che consente di individuare più facilmente Pietraroja.
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Pietraroja (BN) - Panorama da Sudest |
Il monte “Civita di Pietraroja” visto da Ovest, dalla
valle di Cusano Mutri, paese confinante.
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Dal monte Moschiaturo (Defenza: la Rufènza in dialetto locale, 1.470 m s.l.m.) nasce l'altro principale torrente, il Torbido (gliu Tróv’l’), che attraversa le contrade Métole e Potéte e confluisce nel Titerno, dopo essere sceso in territorio di Cusano Mutri.
Il clima di “Pietraroja” in estate è raramente afoso, essendo piuttosto fresco specialmente all'ombra. Essendovi un forte dislivello nel suo territorio, nell'ambito di questo si hanno differenze di temperatura notevoli, specie in inverno, quando il freddo è sensibile, soprattutto in presenza del vento di bora (la vòria). In inverno è immancabile la neve, specie in montagna.
Panorama
da Sud - Pietraroja con la neve in inverno. Sulla sinistra della foto si
vede il PaleoLab.
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Piazza Vittoria, davanti al palazzo comunale, dopo una nevicata abbondante. |
LA PAROLA “PIETRAROJA” DERIVA DA …
Non tutti gli studiosi
sono concordi sull’origine e sulla derivazione (etimologia) della parola
“Pietraroja”.
Si è a lungo ritenuto che il nome del paesello derivasse dal colore rosso-rosa del marmo (pietra rossa, da cui “Pietraroja”) che si trova sul costone di Sudest del “Palumbaro”, parte orientale del Monte Mutria, che ha forma allungata.
Ma in base a quanto ha lasciato scritto lo storico e geografo Strabone (64 a.C. - 20 d.C.), il nome “Pietraroja” deriverebbe dal latino “petra ruens” (terra che scorre, ossia con località interessate anche da frane). Alcuni movimenti franosi ancora oggi interessano certe zone di “Pietraroja”.
Si è a lungo ritenuto che il nome del paesello derivasse dal colore rosso-rosa del marmo (pietra rossa, da cui “Pietraroja”) che si trova sul costone di Sudest del “Palumbaro”, parte orientale del Monte Mutria, che ha forma allungata.
Fontana “Canale”, nei pressi del centro abitato di
Pietraroja. Immagine da Sud verso Nord.
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Ma in base a quanto ha lasciato scritto lo storico e geografo Strabone (64 a.C. - 20 d.C.), il nome “Pietraroja” deriverebbe dal latino “petra ruens” (terra che scorre, ossia con località interessate anche da frane). Alcuni movimenti franosi ancora oggi interessano certe zone di “Pietraroja”.
Questa derivazione del nome “Pietraroja”
trova d’accordo anche il sottoscritto. E ciò per una serie di
considerazioni, non ultima quella basata sul fatto che, pronunciando il nome
“Pietraroja” nel dialetto dei comuni della zona, si ottiene un’espressione che
richiama molto quella latina (“petra
ruens”).
L’aver sostenuto, in
passato, che il nome Pietraroja potesse derivare dall’espressione spagnola “piedra
roja” (corrispondente all’espressione italiana “pietra rossa”) che sarebbe nata durante
il dominio spagnolo in Italia, non può
costituire una spiegazione valida, perché quando iniziò tale dominio il nome
Pietraroja esisteva già da secoli.
Nei
testi medioevali, cioè assai prima della dominazione spagnola in Italia, il nome “Pietraroja” viene riportato
con qualche variazione: Petraroyce, Petraroja.
Pietraroja di sera da Nordest
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“Pietraroja” è sicuramente
un paese antichissimo. Sulle sue origini si è scritto che esso deriverebbe da
un piccolo villaggio sannitico di oltre 2.000 anni fa, fondato in seguito alla
distruzione dell’antica città di “Telesia”,
intorno all’85 a.C., da parte del console romano Lucio Cornelio SILLA, che
volle punire non solo “Telesia”, ma
anche altri centri sanniti, che avevano appoggiato con uomini armati il console
Caio MARIO proprio contro SILLA nella guerra per la conquista del potere di
Roma.
L’evidente scopo di detti
centri sanniti era quello di trarre benefici dalla partecipazione al potere di
Roma, ma l’esercito del console Caio MARIO da essi appoggiato fu sconfitto e il
vincitore (Lucio Cornelio SILLA) punì anche i centri sanniti che erano stati
suoi avversari.
Parte dei Telesini,
scampati alla morte, cercarono rifugio verso Nord, sui monti del Matese, dove
fondarono un piccolo villaggio (la
prima “Pietraroja”) nella zona attualmente denominata “Case
Vecchie”, lungo il bosco del “Feo”,
che è una zona piuttosto distante, e in basso, dall’attuale centro abitato.
Un
angolino molto noto all’ingresso del paese, al bivio con la strada provinciale.
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Il “Feo” si
trova alla sinistra del torrente “Torbido” (ovviamente spalle alla sorgente),
tra “Contrada Valli”, “Fontana Falcigno” (costa d’ gl’aucégli: costone
degli uccelli) e giù verso “Fontana Iannotti”.
Distrutto il villaggio
della località “Case Vecchie”, lungo
il bosco del “Feo”, da una calamità
naturale (non si sa bene se terremoto o alluvione), ne fu costruito un altro (la seconda “Pietraroja”) molto più in alto e
parecchio distante dal “Feo”, tra le
località “S. Anna” e “Castello”, dove si trova parte
dell’attuale centro abitato.
Altra foto scattata all’ingresso del paese, al bivio con la strada provinciale. |
Dopo che anche
quest’ultimo villaggio fu distrutto, secondo la versione più attendibile dal
terremoto dell’11 ottobre 1125, il paese (la terza “Pietraroja”) venne ricostruito poco più a monte, nella zona detta
“Terra Vecchia”, dove attualmente si
trova il piccolo cimitero che, per le sue caratteristiche (posto vicino al
ripetitore RAI, su un cocuzzolo
di montagna molto panoramico, con non molti loculi nei due muri che delimitano
un piccolo cortile rettangolare), costituisce anche un’attrazione turistica. Il
paese fu cinto da mura solidissime nella parte di meno difficile accesso (a Sud
e ad Est), agli angoli delle quali furono innalzate massicce torri circolari. I
rimanenti lati erano protetti da alti e inaccessibili balzi montagnosi.
Per oltre cinque secoli
qui rimase il centro abitato, che, come i centri abitati degli altri paesi
della zona (tranne quello del confinante Cusano Mutri per la sua particolare
formazione geologica), venne raso al suolo dal terribile terremoto del 5 giugno
1688, “...ad hore 21..., ...ch’essendosi cantate le Vespere...”, con 400 morti, come da descrizione manoscritta dell’allora arciprete
don Liberatore Manzella, in un vecchio registro dei matrimoni redatto dallo
stesso arciprete.
Agli inizi del 1700 i
superstiti del catastrofico terremoto del 5 giugno 1688 iniziarono a costruire la quarta “Pietraroja”, dove si trova
attualmente. Marzio Carafa, il conte di
Cerreto di cui “Pietraroja” era feudo, ne influenzò la pianta, che è piuttosto
squadrata e richiama (un po’ alla
lontana, s’intende) la bella pianta di Cerreto Sannita, voluta sempre dal
conte Marzio Carafa.
Nella signoria di
“Pietraroja” si successero, per 4 secoli, i cavalieri normanni della casa
Sanframondo. Nel 1400 “Pietraroja” passò ai Marzano, conti di Alife, nel 1480
passò ad Onorato Gaetani, signore di Piedimonte, quindi ai Carafa, conti di Cerreto,
ai quali appartenne fino al 1806.
LA “PIETRA ROSSO - ROSA” DEL “PALUMBARO”
A proposito della “pietra rosso
- rosa” del “Palumbaro”, parte
orientale del Monte Mutria (1.823 metri sul livello del mare), è stato
addirittura scritto tante volte – in maniera chiaramente erronea – che detta
“pietra” si trova nella località “Fucina”.
Infatti non è così. La
località “Fucina” è situata ad Est
del centro abitato di “Pietraroja”, al di sotto della strada che porta a
Morcone, mentre il “Palumbaro” si
trova a Nord, sulla destra della strada panoramica Sud-Matese che porta a Bocca
della Selva.
Lato di
Sudest del “Palumbaro”, visto dalla strada che da Pietraroja porta a Bocca
della Selva. Nel punto indicato dalla freccia vennero estratti alcuni blocchi
di marmo rosso-rosa.
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Dalla strada, guardando
verso l’alto, lungo il costone del “Palumbaro”
si può addirittura vedere il luogo dove una volta furono estratti alcuni
blocchi del marmo rosso-rosa, che furono utilizzati, tra l’altro, per la
costruzione degli altari della chiesa parrocchiale dell’Assunta.
Il colore rosso-rosa del
marmo di “Pietraroja” è quasi uguale a quello della pietra delle cave di
Vitulano (BN).
Non si continuò
l’estrazione del marmo per le difficoltà, all’epoca, di raggiungere il luogo:
lontano dalla strada, con forte dislivello rispetto ad essa e su un costone
piuttosto ripido ed impervio. Successivamente furono anche posti vincoli di
difesa paesistico - ambientale e il discorso di estrarre il marmo fu
definitivamente chiuso.
Tornando alla località “Fucina”, in essa non esiste alcuna
pietra di colore rosso-rosa, ma solo modesti giacimenti di scisti bituminosi di
colore scuro, talvolta utilizzati come combustibile, scavandone piccole
quantità con un piccone, come ricordava Domenico Falcigno, sindaco della sua
amata Pietraroja dal 1970 al 1985, con numerose ed importanti opere realizzate
(strade comunali e rurali, elettrodotti, acquedotti, il moderno palazzo del
municipio, ecc.).
LA
GROTTA DELLE FATE
Tra i cenni di storia di
“Pietraroja” va menzionato, anche se brevemente per ragioni di spazio, il
fenomeno del brigantaggio postunitario (1860 - 1870), che interessò tutto il
Meridione d’Italia, non escluso il massiccio montagnoso del Matese, in cui si
trova anche Pietraroja.
In questa grotta si nascosero i briganti |
Il “popolo basso” (specialmente pastori, contadini, braccianti e artigiani) fornì un concreto
appoggio alle bande partigiane di Francesco Secondo di Borbone, nella speranza
di conquistare condizioni di vita più tollerabili di quelle imposte (soprattutto la pesante e insopportabile pressione fiscale) dai “piemontesi” (Cavour,
Vittorio Emanuele II, ......), ai quali Garibaldi, con la sua
“Spedizione dei Mille”, aveva regalato un bel pezzo
d’Italia.
I primi quattro, portati a “Pietraroja”, con rapido e sommario consiglio di guerra vennero fucilati alla schiena sull’Aia della Corte, un piccolo spiazzo alle spalle dell’attuale municipio.
A “Pietraroja” e nelle zone limitrofe i “briganti” - soldati del disciolto esercito borbonico, pastori, braccianti, ecc. datisi alla macchia - trovarono luoghi ideali per rifugiarsi e dai quali partire per le loro scorrerie e azioni di rivolta.
Alla “Grotta” i briganti accedevano scalando la parete sottostante con ramponi e corde.
Immagine ravvicinata della "Grotta delle fate" o "Grotta dei briganti". Alla “Grotta” i briganti accedevano scalando la parete sottostante con ramponi e corde.
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Il 15 dicembre 1863 numerosi soldati e guardie nazionali, agli ordini del generale Pallavicini, che era coadiuvato dal coraggioso capitano Diaz, dopo 6 giorni di assedio, durante i quali fu ucciso il carabiniere Giacomo Mennone, piuttosto incauto e spavaldo nell’attaccare, catturarono sette briganti:
- Angelo Varrone di Cusano Mutri, capo banda, di anni 36 e non 48, come più volte erroneamente scritto;
- Vincenzo e Felice Cassella, padre e figlio di 48 e 22 anni, di Cusano Mutri;
- Raffaele Pascale, 39 anni, di Cusano Mutri;
- Francesco Paolo Amato di “Pietraroja”;
- Giovanni Barletta di San Marco dei Cavoti;
- Arcangelo Lancieri di Salerno.
I primi quattro, portati a “Pietraroja”, con rapido e sommario consiglio di guerra vennero fucilati alla schiena sull’Aia della Corte, un piccolo spiazzo alle spalle dell’attuale municipio.
Altro che promessa di avere salva la vita e di riduzione della pena, in caso di resa!
Gli ordini “piemontesi”, nella maggior parte dei casi, non consentivano di andare troppo per il sottile, e le promesse di clemenza con regolari processi e di non essere passati per le armi, in caso di resa o di “ravvedimento”, erano solo premeditati e ingannevoli trucchi.
Anche Francesco Paolo Amato venne poi ucciso e il fratello Nicola, che si era prestato a tradirlo, indicando la “Grotta” dove si nascondeva Francesco Paolo assieme agli altri briganti, con la promessa di ricevere 100 piastre in denaro e che a Francesco Paolo sarebbe stata fatta salva la vita, non ricevette nemmeno il denaro e, soprattutto per la fine del fratello, uscì di senno.
Ancora oggi si parla di “Cola gliu mattu” (Nicola il matto, ossia impazzito), che si ritirò a vivere di stenti in una misera capanna pagliaresca in località Potete nelle campagne di Pietraroja, dove un mattino fu trovato morto.
Il monte Civita di Pietraroja (960 m s.l.m.) ha una vasta e piatta sommità, che costituisce una spettacolare terrazza naturale sulla sottostante valle del fiume Titerno.
Foto da Nord di Francesco Raffaele.
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Il monte Civita di Pietraroja da Nordovest |
A “Pietraroja” e nelle zone limitrofe i “briganti” - soldati del disciolto esercito borbonico, pastori, braccianti, ecc. datisi alla macchia - trovarono luoghi ideali per rifugiarsi e dai quali partire per le loro scorrerie e azioni di rivolta.
Come si sa, essi, ma non i
loro registi più o meno occulti, furono perseguitati, battuti e spesso uccisi
senza tante formalità. Di ciò ancora oggi a “Pietraroja” si racconta, e c’è un
episodio del quale sanno ancora un po’ tutti: l’episodio della “Grotta
delle Fate”, del quale hanno scritto anche gli storici.
La “Grotta delle Fate”, o “Grotta dei Briganti”, si trova, ben
nascosta e inaccessibile, nelle “rave” (profondi canaloni lungo i
costoni rocciosi che scendono fino al letto del torrente Titerno) alle spalle di “Pietraroja”,
verso Nordovest, sul versante destro (spalle alla sorgente del
Titerno) del
profondo “canyon” a monte di “Fontana
Stritto”.
Parte superiore dei balzi montagnosi (gli vàuzi) sul lato Ovest del monte Civita di Pietraroja - Foto scattata dal ripetitore RAI. |
In relazione ai quattro
briganti originari di Cusano Mutri, fucilati alla schiena sull’Aia della Corte
a Pietraroja, al fine di procurarmi ulteriori informazioni ed evidenziare alcune imprecisioni nella narrazione storica degli
episodi, soprattutto riguardo
all’età dei briganti, ho ritenuto utile qui riportare fedelmente il contenuto degli ATTI DI
MORTE dell’anno 1863, conservati nel municipio di Pietraroja.
Da tali ATTI così risulta:
Vincenzo Cassella di anni 49, di
professione bracciale, domiciliato in Cusano, figlio di Giovanni Cassella e di
Annamaria Cassella.
Felice Cassella di anni 22, di
professione bracciale, domiciliato in Cusano, figlio di Vincenzo Cassella e di
Angela Bove.
Raffaele Pascale di anni 40, di professione bracciale,
domiciliato in Cusano, figlio di Giovannantonio e di Olimpia De Toro.
Angelo Varrone di anni 32, di
professione bracciale, domiciliato in Cusano, figlio di Francesco Varrone e di
Teresa.
Per l’atto di morte”, registrato
su una intera pagina, riguardante il brigante Angelo Varrone (e
così per gi altri tre), risulta così annotato:
Avanti
a Giuseppe Amato, sindaco del Comune di Pietraroja, sono comparsi Carlo
Perugino, di anni 46, domiciliato in Pietraroja e Domenico Russo di anni 52, i
quali hanno dichiarato che il giorno 16 del mese di dicembre 1863, alle ore 15,
è morto Angelo Varrone di anni 32,
di professione bracciale, domiciliato in Cusano, figlio di Francesco Varrone e
di Teresa.
IL SINDACO
Giuseppe Amato
Vito Pastore - cancelliere
Dai registri decennali
delle morti, conservati nel municipio di Cusano Mutri (BN), viene così
riportato fedelmente:
VARRONE ANGELO, nato il 26 aprile 1829 a
Cusano Mutri da Francesco e AMATO Teresa
CASSELLA ANGELO FELICE, nato il 18 aprile 1841 a
Cusano Mutri da Vincenzo e PRECE Angela Maria
PASCALE RAFFAELE, nato il 27 settembre
1821 a Cusano Mutri da Giovannantonio e DE TORO Olimpia
LE
BELLEZZE ARCHITETTONICHE E I MONUMENTI
All’ingresso del paese,
davanti al palazzo comunale, c’è “Piazza
Vittoria”, luogo di ritrovo dei Pietrarojesi. Sul lato ovest della piazza
una volta c’era “gliu puzzu” (il
pozzo), dal quale gli abitanti attingevano l’acqua prima che venisse realizzato
l’acquedotto, che, per il centro abitato, risale al 1928.
Il palazzo comunale, all’ingresso del paese, si affaccia su “Piazza Vittoria”, luogo di ritrovo dei Pietrarojesi.
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Salendo per la via
principale all’interno del paese, si giunge a “Piazza S. Nicola”, dove si trova la chiesa parrocchiale di “Santa Maria Assunta in Cielo”, di epoca
romanica e di chiara derivazione pugliese, realizzata nel 1695 (data anche scolpita sull’architrave del
portale) ricostruendo l’antica chiesa di S. Paolo, che si trovava fuori le
mura della terza “Pietraroja” e che fu anch’essa distrutta dal terremoto del 5
giugno 1688. Prima del disastroso terremoto la Chiesa Madre dell’Assunta, con
tre navate e 12 archi, si trovava sul cocuzzolo del monte Sant’Angiolillo, dove
si trova l’attuale cimitero. Terremoto che l’arciprete don Liberatore Manzella
così descrisse: “.....
il terremoto che fu a 5 giugno 1688 ad hore 21 tanto forte, et terribile, che
buttò per terra tutta la Terra affatto, et la Chiesa in tempo ch’essendosi
cantate le Vespere si cantava la Compieta parata con l’assistenti, .....et si
era arrivato al psal. “In te Domine speravi, non confundar in aeternum”, et gli altri sacerdoti... cantavano dietro il
Choro, ove fuggimmo anche noi, ma con difficoltà grande per l’agitazione del
terremoto, ch’io a mala pena entratovi mi fermai dietro la Custodia: per la
Chiesa altro non si sentia, che rumore et sono di Campane, et campanelli, che
sonavano da per se, commossi dal terremoto; et tutta la Chiesa, hor chinarsi
verso Oriente, hor Verso Occidente con strepito di travi, et aprirsi et
serrarsi le lamie, di maniera che mostrava il Cielo all’apriture: finalmente
cascò quella sì bella, et magnifica Chiesa fatta con tante lamie, et pilastri
tutti a cantoni (blocchi di
pietra) lavorati, .....cascò il campanile
con quattro campane, cascò parimenti l’horologio et tutti quelli poveretti che si trovavano dentro la Chiesa
furono sepolti dalla ruina di essa Chiesa, de’ quali pochissimi furono scavati
vivi. Restò solo in piedi il Choro fatto a lamia, quale benché due volte si
aprì, et mostrò a noi l’aree, nulladimeno poi miracolosamente si serrò....
Dentro il Choro scampammo la vita tutti noi sacerdoti.
Quando
uscimmo da esso vedemmo la Chiesa tutta spianata et uscendo fuori di essa si
vidde tutta la Terra ridotta in una maceria di pietre, che nessuno di noi potea
sapere dov’era stata la sua casa. Se sentiano stridi et lamenti di assaissimi
poveretti, che stavano sepolti sotto le ruine di esse case. .....”
Sull’antico portale
dell’attuale chiesa dell’Assunta sono scolpiti un leone, una leonessa, un orso
e un’orsa che allatta i cuccioli, e sia i leoni che gli orsi sono incatenati da
una catena di pietra scolpita a forma di catena di ferro, che si estende lungo
tutto il portale (in verità la catena di pietra somiglia ad una grossa fune).
Pietraroja,
chiesa parrocchiale di Maria Assunta in Cielo con l'antistante piazza
San Nicola.
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Alla base di ognuno dei due stipiti della porta di destra (guardando la
facciata) delle attuali tre porte della chiesa, è scolpito, a sinistra, “fu la
peste 1656” e, a destra, “fu la carestia 1648”.
Il portale dell’attuale chiesa dell’Assunta è lo stesso che aveva la chiesa di S. Paolo caduta col terremoto: non si tratta, pertanto, del portale che aveva la Chiesa Madre dell’Assunta sul cocuzzolo del Monte Sant’Angiolillo, prima che il terremoto la distruggesse. A dimostrazione di ciò, riportiamo quello che scrisse don Liberatore Manzella nel lontano 1684, quattro anni prima del terremoto: “La Chiesa di S. Paolo extra muros ha due porte, cioè una revolta all’oriente estivo. Quale è la porta grande fatta di pietre lavorate a cantoni (blocchi), in essa vi sono scolpiti di pietra alla parte di sopra uno leone et una leonessa; il leone dalla parte destra nell’uscire, et la leonessa dalla parte sinistra, et nella parte inferiore vi sono un orso dalla detta parte destra et dalla parte sinistra un’orsa con loro sacchi (cuccioli), che lattano, et tanto li leoni, quanto l’orsi vengono incatenati da una catena di pietra scolpita a guisa di catena di ferro. Alla parte di sopra vi è l’arco trave di pietra, sono in mezzo di esso arco trave due statue di pietra rossa, una di S. Pietro et l’altra di S. Paulo Apostoli, et in mezzo di essi si legge un numero, che dice ottocento, forse quando fu edificata detta Chiesa correva l’anno ottocento del Signore. Sopra detto arco vi è l’agnello con la crocetta sopra l’homeri”.
Ecco
qui di seguito le due immagini ravvicinate, relative alle due scritte
scolpite nella pietra alla base degli stipiti della porta di
destra (guardando
la facciata);
scritte da me leggermente evidenziate per una più agevole lettura.
Il portale dell’attuale chiesa dell’Assunta è lo stesso che aveva la chiesa di S. Paolo caduta col terremoto: non si tratta, pertanto, del portale che aveva la Chiesa Madre dell’Assunta sul cocuzzolo del Monte Sant’Angiolillo, prima che il terremoto la distruggesse. A dimostrazione di ciò, riportiamo quello che scrisse don Liberatore Manzella nel lontano 1684, quattro anni prima del terremoto: “La Chiesa di S. Paolo extra muros ha due porte, cioè una revolta all’oriente estivo. Quale è la porta grande fatta di pietre lavorate a cantoni (blocchi), in essa vi sono scolpiti di pietra alla parte di sopra uno leone et una leonessa; il leone dalla parte destra nell’uscire, et la leonessa dalla parte sinistra, et nella parte inferiore vi sono un orso dalla detta parte destra et dalla parte sinistra un’orsa con loro sacchi (cuccioli), che lattano, et tanto li leoni, quanto l’orsi vengono incatenati da una catena di pietra scolpita a guisa di catena di ferro. Alla parte di sopra vi è l’arco trave di pietra, sono in mezzo di esso arco trave due statue di pietra rossa, una di S. Pietro et l’altra di S. Paulo Apostoli, et in mezzo di essi si legge un numero, che dice ottocento, forse quando fu edificata detta Chiesa correva l’anno ottocento del Signore. Sopra detto arco vi è l’agnello con la crocetta sopra l’homeri”.
Una menzione particolare
merita la chiesetta di montagna dedicata a Sant’Anna, riaperta al culto il 26 luglio
(giorno di Sant’Anna) 1985 con l’intervento del vescovo di Cerreto, Felice
Leonardo. La chiesetta, veramente bella sia dentro che fuori, si trova isolata,
a monte del centro abitato, in uno scenario naturale d’incomparabile bellezza.
La chiesetta è stata realizzata ricostruendo l’antichissima cappella, sempre
dedicata a Sant’Anna, risalente ai tempi della seconda “Pietraroja”.
Degne di nota sono anche
due chiesette di campagna: una in contrada Mastramici, dedicata a S. Francesco
e l’altra in contrada Cerquelle, detta cappella dei Sibrella, in onore di S.
Rocco.
Cappella dei Sibrella in Contrada Cerquelle, nella parte bassa delle campagne pietrarojesi. |
Meritano di essere
menzionati anche i resti di un monastero benedettino dell’undicesimo secolo,
intitolato a Santa Croce, sulla provinciale Pietraroja - Sepino, proprio sul
valico di Santa Crocella (1.219 metri s.l.m.), nei pressi dell’edicoletta,
posta nell’ottobre 1960, con croce in pietra e lapide, sulla quale è scritto: “Crux
parva ubi monasterium clarum” (piccola croce dove
esisteva un illustre monastero).
Il valico di Santa
Crocella è una sella montana di grande suggestione paesaggistica, tra il Monte
Tre Confini (1.419 metri s/l/m) e il Monte Moschiaturo, detto anche “Defenza”
(1.470 metri s/l/m). Il valico si trova proprio sulla linea di confine tra i
Comuni di Pietraroja e Sepino, tra le Province di Benevento e Campobasso e tra
le Regioni Campania e Molise.
Il monastero di Santa
Crocella è stato più volte portato alla ribalta della cronaca sulla stampa
locale, sia in Molise che in Campania.
Dal 1960 l’edicoletta del passo di Santa Crocella contribuisce efficacemente a ricordare ai passanti sulla strada provinciale Cusano Mutri – Pietraroja – Sepino che in quel luogo, su quel valico di montagna, a 1.219 m s.l.m., a circa 7 km dal centro abitato di Pietraroja, c’era un antico e famoso monastero benedettino eretto nel 1140.
Il valico di Santa Crocella agevola l’attraversamento da un versante all’altro di questa zona montagnosa e si trova proprio sulla linea che fa da confine:
1) - tra le Regioni Campania e Molise,
2) - tra le Province di Benevento e Campobasso,
3) - tra i Comuni di Pietraroja e Sepino.
A quella quota non fa mai caldo (anzi!) e spesso già a ottobre-novembre vi cade la prima neve.
I monti del Matese sono ricchi di vastissimi boschi (vere e proprie foreste), con una fauna d’eccezione che tra l’altro annovera il lupo e l’aquila reale.
Quando si attraversa il valico, è possibile ammirare un patrimonio naturale d’eccezione, assai prezioso oltre che attraente, e cresce sempre più l’auspicio di vederlo meglio gestito e tutelato, con uno sguardo non solo al passato, ricco di storia, ma anche al futuro, per le notevoli potenzialità turistiche – e quindi economiche – che questo patrimonio naturale è in grado di esprimere, specialmente se salvaguardato. Peraltro in un’area geografica economicamente depressa che – ribadiamolo ancora una volta – ripone nel turismo buona parte delle sue speranze di sviluppo.
Passo
di Santa Crocella, studenti delle medie superiori (aspiranti ragionieri) durante un’uscita culturale nell’area
del Matese.
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Nelle campagne di
Pietraroja, in contrada “Case Varrone”, esisteva
la cappella dell’Addolorata risalente al 1823, della quale si era persa traccia
a causa della modifica del fabbricato in cui si trovava.
Non sarebbe stato facile individuare il luogo
dove fu costruita la cappella, se non si fosse avuta la fortuna di incontrare,
qualche anno prima che morisse (il 22 gennaio 1995), una persona che la
ricordava perfettamente: Pietro Varrone, classe 1910. Egli indicò con
precisione l’attuale casa colonica appartenente alla famiglia Mendillo,
ristrutturata alcuni anni addietro, che una volta fu la cappella dell’Addolorata.
Essa fu funzionante fino alla Prima Guerra Mondiale (1915 - 1918), poi dal 1918
al 1920 servì come aula per la scuola primaria che Pietro Varrone frequentò.
Sul muro del fabbricato (in catasto: foglio 25 - particella 80) c’è ancora una
nicchia con 4 piastrelle in maiolica (“rigiole”) di fattura cerretese, datate
1823, con l’immagine della Beata Vergine dell’Addolorata.
IL PARCO GEO-PALEONTOLOGICO
La presenza a
“Pietraroja”, a pochi metri dal centro abitato, un po’ più a monte, di rari
resti fossili di animali e vegetali anche di circa 200 milioni di anni fa,
contribuisce a rendere ancora più attraente, se non addirittura affascinante,
un ambiente naturale di montagna tutto da vedere.
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I calcari fossiliferi di
“Pietraroja” si formarono nell’Era Mesozoica, articolata nei suoi tre periodi:
Triassico, Giurassico (da cui il famoso film sui dinosauri, “Jurassic Park”) e Cretaceo, in un
ambiente di tipo lagunare, con acque calde e poco profonde, molto calme e con
saltuarie comunicazioni con il mare aperto. Gli animali, uccisi da gas tossici
sprigionati da flore batteriche, vennero ricoperti da sedimento (fine e vario
materiale che nell’acqua si depositava sul fondo) e subirono, in tempi
ovviamente molto lunghi, un lento processo di pietrificazione, assieme allo
stesso sedimento, nel quale rimasero imprigionati.
Tra i tanti resti
pietrificati di animali, sono stati ritrovati rettili fino a 30 centimetri,
antenati dei “Rincocefali”, che
attualmente vivono nelle famose isole “Galapagos”.
Nel 1982 fu ritrovato anche un coccodrillo, portato per restauro presso
l’Università di Torino.
Sono stati rinvenuti denti
di 15 centimetri appartenuti ad un antenato dello squalo azzurro lungo 10
metri. E intorno al 1980 è stato rinvenuto un cucciolo integrale di dinosauro
famoso in tutto il mondo (il celeberrimo Scipionyx
samniticus, meglio noto come “Ciro”), che fu preso
“temporaneamente” in consegna dal Museo Archeologico di Napoli (o più
esattamente dalla Soprintendenza archeologica di Salerno).
La notizia, apparsa su
tutta la stampa nazionale e internazionale, ebbe vasta eco, facendo aumentare
notevolmente l’interesse per il Parco Geopaleontologico di Pietraroja.
Purtroppo i resti
fossiliferi rimasti a Pietraroja non sono molti, perché sono stati quasi tutti
dispersi in Italia (Torino, Verona, Napoli) e all’estero (Berlino, Londra,
Parigi), dove vengono restaurati e studiati.
ECCO CHI E’ “SCIPIONYX
SAMNITICUS”, ALIAS “CIRO”, FOSSILE DI DINOSAURO TROVATO A PIETRAROJA
(BN).
“Scipionyx samniticus”,
alias “Ciro”, fu rinvenuto a Pietraroja verso la fine degli anni ‘70 da un
paleontologo dilettante veronese, Giovanni Todesco.
Si disse all’epoca che
Todesco, venuto a Pietraroja, da vero appassionato avesse cercato di procurarsi notizie e
informazioni di ogni genere, anche le più semplici, sui fossili locali
fermandosi cordialmente a parlare del più e del meno anche con la gente del
posto, quando girava per il paese. Fu così che venne a sapere che un ragazzino
possedeva una pietra con un fossile strano e chiese di vederla.
Todesco non capì subito che si
trattava di un dinosauro, ma considerò ugualmente molto interessante il fossile e
propose al ragazzino di cederglielo in cambio di un regalo.
Passarono gli anni e solo
nel 1993 Todesco entrò in contatto con l’esperto paleontologo Giorgio Teruzzi,
del Museo di Scienze Naturali di Milano, che riconobbe “Scipionyx” per quello
che è: un fossile di dinosauro!
A Todesco va perciò riconosciuto il grande merito di essersi subito reso conto di avere a che fare con un fossile non comune e di averlo conservato con cura, consentendo così ad esso di ottenere una meritata ribalta mondiale.
Lo
stato di conservazione del dinosauro di Pietraroja è eccezionale. Il fossile
mostra persino i resti degli organi interni.
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Uno
degli unghioni con i quali smembrava le prede.
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I locali (studiosi campani) confidenzialmente lo soprannominarono subito “Ciro”, ma solo da
giovedì 26 marzo 1998, con la sua presentazione al Museo di Storia Naturale di
Milano, in contemporanea con uno studio pubblicato sulla rivista “Nature",
“Ciro” è diventato famoso in tutto il mondo e gli scienziati, imbarazzati nel
chiamarlo “Ciro”, gli hanno dato un nome serio, scientifico: Scipionyx
samniticus.
“Scipio” in onore di Scipione Breislak, un famoso geologo borbonico
della seconda metà del 1700, il quale nel 1798 descrisse per primo i fossili di
Pietraroja e, tra l'altro, così scrisse: " … Questa montagna in alcune parti è composta di pietra calcarea scissile con impressioni di pesci…".
Mentre “onix” significa artiglio, ad indicare le tipiche estremità
delle zampe con cui il bipede carnivoro afferrava la preda, che poi smembrava
con la robusta dentatura. Infine “samniticus” si riferisce al Sannio, il nome
latino della zona di Benevento e Pietraroja.
“Scipionyx” visse 113
milioni di anni fa, nel Cretacico inferiore, il terzo periodo dell’Era
Mesozoica, compreso tra 145 e 65 milioni di anni fa, in un ambiente di tipo
lagunare, detto il “Mare della Tetide”, caratterizzato da gruppi di isole che
molti milioni di anni dopo si sarebbero trasformate nelle nostre regioni.
Allora la temperatura media era più elevata di adesso, anche in considerazione
del fatto che l’area dove sarebbe affiorata l’Italia si trovava quasi
all’Equatore. Insomma il clima era caldo, di tipo tropicale, con un ambiente simile
a quello delle odierne isole Bahamas.
Foto da Sudovest
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Secondo diversi
scienziati, probabilmente travolto da un’onda di piena durante un’alluvione
causata da un uragano, “Scipionyx”, proprio perché piccolo e debole per la sua
tenera età, e quindi incapace di difendersi dalla furia degli elementi, annegò e il suo corpo andò a depositarsi sul
fondo limaccioso della laguna, dove non si decompose per la presenza di
sostanze tossiche.
Il corpo fu ricoperto da
strati di sedimento (fine e vario materiale che nell’acqua si depositava sul
fondo) e in quella specie di bara naturale priva di ossigeno e di batteri che
lo facessero decomporre, il corpo del piccolo animale iniziò un lentissimo
processo di pietrificazione, assieme allo stesso sedimento nel quale rimase
imprigionato. Gli strati calcarei dov’era sepolto “Scipionyx”, poi, lentamente
si sollevarono ed emersero dalle acque, fino a formare quelli che oggi sono i
monti del Sannio.
Quando morì, “Scipionyx”
aveva poche settimane di vita e misurava una cinquantina di centimetri di
lunghezza (i resti fossili ovviamente
meno, data anche la posizione che il piccolo animale assunse quando rimase
pietrificato). Da adulto avrebbe raggiunto la lunghezza di un metro e mezzo e il peso di 15 - 20 chilogrammi .
L’animale camminava sulle zampe posteriori e probabilmente era in grado di
correre velocemente, proprio come si addice ad un abile predatore carnivoro.
“Scipionyx samniticus” è
il primo dinosauro intero trovato in Italia e si tratta dell’unico dinosauro al
mondo in cui siano visibili, oltre alle parti dure (ossa, denti, gusci), anche
diverse parti molli, come l’intestino (con resti dell’ultimo pasto), il fegato,
la trachea, gli occhi, la pelle e fasci di fibre muscolari del petto. Spiccano
inoltre gli unghioni a mo’ di artigli.
DON LORENZO
DE CARLO E I FOSSILI DI PIETRAROJA
Don
Lorenzo De Carlo, arciprete, nato a Pietraroja il 3 agosto 1884 e morto a
Pietraroja il 16 febbraio 1967 all’età di 83 anni, viene ricordato ancora oggi
per la sua incisiva ed estrosa capacità di sottoporre all’attenzione di tutti
anche le cose apparentemente più semplici, evidenziandone gli aspetti più
interessanti o suscitando la curiosità della gente con forme di attrazione a
volte veramente originali.
Personaggio
di colore, don Lorenzo De Carlo si dilettava anche a fare il politico, il poeta, il musicista, il
fuochista, il fotografo ed era presente in tutte le
manifestazioni popolari di Pietraroja.
Era un apprezzato oratore e predicatore e, nella vita privata, coltivava con grande passione anche l’hobby della
caccia.
Don
Lorenzo aveva intuito che i fossili di Pietraroja avrebbero un giorno potuto
portare all’attenzione nazionale e internazionale il suo paesello e si
adoperava non poco per suscitare, almeno nella sua regione, interesse per quel
patrimonio preistorico ancora praticamente sconosciuto.
Usando
una cinepresa, aveva realizzato un film muto (più esattamente un documentario)
su Pietraroja e i suoi fossili e lo proiettava, commentandolo come si faceva
con i film muti, nei teatri della regione in occasione di conferenze. Munito di
una lunga canna, indicava, commentandola con suggestione, ogni sequenza.
Al termine della proiezione teneva la sua conferenza
aperta al dibattito, in cui metteva in luce le bellezze e le memorie fossili
della sua terra, auspicandone un grande avvenire.
Concludeva
con lo sguardo e le mani rivolti al cielo, invocando lo Spirito Santo affinché
facesse un giorno aleggiare il nome di Pietraroja in tutto il mondo per
l’importanza dei suoi fossili.
Don
Lorenzo sarebbe sicuramente contento oggi che dal ventre della sua terra è
venuto fuori, con grande ribalta internazionale, “Scipionyx samniticus”, ai più noto come “Ciro”, cucciolo di
dinosauro vissuto a Pietraroja 113 milioni di anni fa.
A
conclusione di questa nota, voglio evidenziare l’estrosità dell’oratore che, al
termine della sua manifestazione, sorteggiava un prosciutto
ed un sacchetto di
lenticchie di Pietraroja, che regalava all’uditorio: ad ogni
persona presente veniva dato un numero. Poi, con l’estrazione a sorte, venivano
assegnati in regalo il prosciutto ed il sacchetto di lenticchie.
Veramente
ingegnoso don Lorenzo. E’ vero che ci rimetteva i due premi, ma raggiungeva
pienamente lo scopo di riuscire a far intervenire alla manifestazione molta
gente che, nella speranza di ricevere gratis il prosciutto o, in alternativa,
almeno il sacchetto di lenticchie, accorreva in gran numero e veniva a conoscenza
di Pietraroja e delle sue bellezze, comprese quelle preistoriche.
Veduta aerea da Sudest |
LE ATTIVITÀ ECONOMICHE
“Pietraroja”, paesello di
montagna, con i suoi 832 metri sul livello del mare del centro abitato, è il “tetto”
della Provincia di Benevento.
Attualmente ha meno di 600
abitanti. Nel 1532 la popolazione era di 56 fuochi, che nel 1648 aumentarono a
119, per poi scendere a 69 nel 1669, a causa della mortalità dovuta alla peste
del 1656. Nel 1791 gli abitanti aumentarono a 1.673 e divennero 2.135 nel 1861.
Nel 1958 furono 1.231, poi in continua diminuzione a causa dell’emigrazione.
L’economia è
essenzialmente basata sulla pastorizia e un po' anche sulla coltivazione della terra.
La coltivazione della terra è oggi molto
ridotta perché la resa di questi terreni montani è assai modesta, ma fino ad
alcuni decenni fa, nonostante fosse poco redditizia, l’agricoltura veniva
praticata un po’ ovunque, dalle quote più basse fino ad oltre i mille metri di
altitudine, con coltivazioni soprattutto di frumento, patate, legumi e
granoturco.
E a proposito
dei legumi, sono stati sempre molto richiesti le lenticchie e i fagioli di Pietraroja
perché squisiti e profumati durante e dopo la cottura. Le persone più anziane
ricordano ancora che in occasione delle fiere mensili del confinante paese di
Cerreto Sannita, quando i contadini di Pietraroja scendevano a vendere le
lenticchie e i fagioli pietrarojesi, c’era una vera e propria corsa all’acquisto
di questi prodotti.
L’allevamento, soprattutto
di ovini, è invece ancora importante per gli abitanti di “Pietraroja”. Ma si
allevano anche cavalli e bovini. Questi ultimi sia allo stato brado che in
stalla. Per cui è molto praticata la fienagione.
L’allevamento degli ovini
è stato caratterizzato, fino ad alcuni decenni orsono, dal fenomeno della
transumanza (che a “Pietraroja” chiamano “ transumaziòn’
”), quasi tutta verso la Puglia.
Decine di migliaia di
pecore, a causa del rigore dell’inverno pietrarojese, non potevano esse fatte
svernare a “Pietraroja”, in stalla col fieno, o nelle immediate vicinanze, per
cui venivano condotte nelle pianure pugliesi, prevalentemente all’altezza del
Gargano. La partenza da “Pietraroja”, a gruppi di 5 o 6 mandrie di 200 - 300
pecore guidate dai pastori, avveniva tra l’ultima settimana di ottobre e San
Martino (11 novembre) e l’arrivo in Puglia avveniva dopo circa 12 giorni,
percorrendo un “tratturo” largo circa 60 passi.
Si aveva cura di far
coincidere la partenza con la luna piena, per una migliore visibilità durante
le ore notturne, anche se di notte le pecore, pur con la luna, si spostavano
con grande difficoltà, al contrario di bovini e cavalli. Per cui di notte era
necessario accamparsi sul “tratturo”, facendo stare le pecore in recinti di
rete.
Tutti i pastori dovevano
osservare una regola ferrea durante il percorso sul “tratturo”: il “divieto di sorpasso”. Una mandria non poteva
superarne un’altra, forse per evitare commistioni di animali di più mandrie o,
cosa ancora più probabile, per evitare la corsa a chi arrivava prima in Puglia
per conquistare i pascoli migliori, sfiancando gli animali, peraltro già
gravidi.
La transumanza dei bovini
è stata praticata fino alla fine del decennio 1970 - 1980.
Il ritorno a “Pietraroja”
avveniva dopo circa 7 mesi, entro il 13 giugno (S. Antonio).
Essendo patrono di
”Pietraroja” S. Nicola, la festa patronale non si poteva celebrare il 6
dicembre (giorno di S. Nicola, previsto dal calendario), quando i numerosi
pastori stavano in Puglia, per cui fu spostata alla domenica precedente il 24
giugno.
Pastore ultrasettantenne che collabora nell'attività di pastorizia a
conduzione familiare.
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Il Papa Clemente XII° – raccontava Domenico Falcigno, sindaco di Pietraroja dal
1970 al 1985 – con decreto pontificio del
14 maggio 1732, proclamò S. Nicola di Bari protettore principale di “Pietraroja”,
accogliendo la richiesta del Clero, che attribuì al Santo un fatto miracoloso
verificatosi col catastrofico terremoto del 1688, che distrusse la terza
“Pietraroja”, compresa la chiesa fuori le mura che era dedicata a S. Paolo,
antico protettore. Gli storici dell’epoca scrissero che, nell’ammasso di
rovine, con ecatombe di fedeli, la sola statua di S. Nicola rimase sul suo
piedistallo, rivolta verso l’altare maggiore, dove era esposto il SS.
Sacramento.
L’economia pietrarojese è
in crisi ancora più seria che altrove. La pastorizia e l’agricoltura vanno
sempre più regredendo a causa soprattutto delle vecchie logiche di conduzione,
che devono essere necessariamente superate, se si vuole guardare con un po’ di
ottimismo al futuro.
Il turismo, poi, in cui
vengono riposte grosse speranze di sviluppo, stenta a decollare, e quanto alla
valorizzazione del “Parco Geopaleontologico”,
si è fatto qualcosa, ma molto si può ancora fare. E sarebbe anche di grande
importanza per la forte spinta che l’attrazione turistica del “Parco” può dare
all’economia locale.
Premesso che a Pietraroja
la coltivazione della terra e l’allevamento allo stato brado costituiscono
risorse economiche decisamente insufficienti ad assicurare condizioni di
sviluppo almeno accettabili, occorre considerare l’importanza delle notevoli
potenzialità turistiche, finora purtroppo poco o niente sfruttate.
Costituiscono importanti
attrazioni:
·
il parco geopaleontologico, con una vasta gamma di rari e numerosi resti
fossili, tra i quali spicca il celeberrimo “Scipionyx smniticus”, ai più noto
come “Ciro”, fossile di dinosauro di 113 milioni di anni fa famoso in tutto il
mondo;
·
il Paleo-Lab, moderno museo – laboratorio di paleontologia, inaugurato
il 10 aprile 2005; si tratta di una struttura scientifica unica in Italia;
·
l’affascinante e vastissimo paesaggio montano, peraltro ricco di boschi
(vere e proprie foreste) e con una
fauna d’eccezione che tra l’altro annovera il lupo e l’aquila reale;
·
la temperatura fresca anche in estate, quando a quote meno elevate il
caldo è spesso insopportabile;
·
l’assenza di rumori;
·
l’acqua pura delle sorgenti, che molti attingono e si portano a casa in
appositi recipienti;
·
le escursioni, anche guidate;
·
la gastronomia locale, caratterizzata da prodotti genuini molto
apprezzati, tra cui il famoso prosciutto;
· l’aria salubre, ben diversa da quella inquinata dal traffico automobilistico o da attività industriali e commerciali, oppure dall’agricoltura intensiva;
A questi e ad altri
richiami difficilmente sanno resistere coloro che abitualmente vivono in luoghi
dove tutte queste cose si possono solo immaginare.
Del resto è facile
comprendere il desiderio di venire a contatto con un ambiente naturale
rilassante e tutt’altro che monotono e che, nello stesso tempo, consenta di
evadere dalla stressante vita di tutti i giorni.
Se poi – com’è auspicabile – vengono gradualmente realizzate idonee
e sufficienti attrezzature turistico-alberghiere, il flusso turistico
diventerebbe sempre più sistematico e sempre meno sporadico.
Le buone condizioni
ambientali hanno spesso favorito, anche in passato, casi di longevità.
Ancora oggi viene ricordato un parroco di
Pietraroja che visse 124 anni: Clemente Petrillo, dal 1493 al 1617.
Egli
scrisse una cronaca dei tredici vescovi telesini che ressero la sua parrocchia.
GLI
APPUNTAMENTI DELLA TRADIZIONE
Festa di S. NICOLA, patrono
|
la domenica precedente il 24 giugno
(S. Giovanni)
|
Festa della MADONNA DEL CARMELO (gliu
Carmn’: Il Carmine)
|
il 16 luglio
|
Festa di S. ANNA
|
il 26 luglio
|
Festa della MADONNA DELL’ASSUNTA
|
il 15 agosto
|
Festa di SAN ROCCO (Pietraroja
centro)
|
il 16 agosto
|
Festa di SAN ROCCO (alla contrada
Cerquelle)
|
la domenica successiva al 16 agosto
|
Festa degli EMIGRANTI
|
viene stabilita anno per anno di
solito tra il 17 e il 20 agosto
|
Festa di SAN FRANCESCO (alla contrada
Mastramici)
|
il 4 ottobre
|
Ogni anno, poi, c’è una particolare “kermesse”
organizzata nel mese di agosto: la Sagra dei prodotti tipici locali.
Questa sagra è ovviamente finalizzata anche a valorizzare le risorse locali: culturali, storiche, naturali, gastronomiche. Dagli stand della Pro Loco e di ristoratori locali vengono proposti piatti tipici e genuini quali:
·
i “carrati”: tipici e ricercati maccheroni locali al
ragù fatti a mano;
·
arrosto di agnello;
·
braciole di pecora;
·
salsicce e carne di vitello locali;
·
salumi (capocollo, pancetta, soppressata);
·
pizzette fritte e dolci gustosi;
·
formaggi locali (pecorino, caciocavallo, ricotta);
·
“trit’gli e pepàugli” (pezzetti di
carne di maiale fritti assieme a peperoni sotto aceto).
Immancabile, alla sagra, il famoso prosciutto di Pietraroja, che al
“Salone del gusto” di Torino è stato definito squisito, prelibato, unico.
I visitatori possono così
degustare prodotti rigorosamente locali, godendo dell’aria fresca di montagna,
piacevolmente gradita nella calura estiva, allietati da spettacoli e musica dal
vivo.
Si organizzano, inoltre,
visite guidate al sito geopaleontologico con annesso Museo Paleo Lab.
A proposito di sagre ed
altre manifestazioni simili, è però opportuno sottolineare che se i prodotti
tipici sono importanti per l’economia locale, è bene dedicare molta attenzione
alle opportunità di richiamo turistico offerte dalle memorie storiche, anzi
preistoriche: i famosi fossili di Pietraroja.
I CARRATI
I Carrati di Pietraroja
sono dei tipici e ricercati maccheroni locali, fatti a mano con ingredienti e
salsa particolari, come il sugo di carne di pecora giovane (non ancora avviata
alla riproduzione), detta anche “ciavarra” o “chiuppaiola”.
Per preparare questi
gustosi maccheroni ad un pranzo per 6 persone, si prendono:
·
1 kg di farina
·
2 uova
Dopo aver sbattute le
uova, si aggiunge l’acqua e poi la farina, e si impasta. La pasta si lavora a
mano, con cura e a lungo, fino a quando non si sentono rompere sotto le dita le
bollicine d’aria che si formano nella pasta.
Dalla pasta si ricavano
delle sfoglie rettangolari, a mano (con il matterello) o con la macchina per
fare i maccheroni in casa (predisponendo la misura che consente il maggiore
spessore delle sfoglie).
Ogni sfoglia viene poi
tagliata per ricavare delle strisce della larghezza di circa 3 cm. Quindi ogni
striscia si taglia trasversalmente per ricavare dei pezzetti di pasta larghi 3
– 4 mm.
Questi pezzetti di pasta
vengono schiacciati (quanto basta) e arrotolati (cioè carriati, da cui “carrati”) con apposito bastoncino di
ferro.
Probabilmente quest’ultima
operazione e la stessa denominazione di questi tipici maccheroni di Pietraroja
(i “carrati”) derivano dalla
denominazione “strascinati” che viene
attribuita ad un tipo di maccheroni che si fanno ancora in Puglia, dove i
Pietrarojesi svernavano con decine di migliaia di pecore all’epoca della
transumanza.
I “carrati” così ottenuti si mettono ad asciugare su una superficie
piana (ovviamente ben pulita) o su una rete sottile e a maglia molto stretta,
in modo da consentire (con l’uso della rete) una più rapida essiccazione della
pasta, che, divenendo asciutta, si conserva (si “mantiene”) per più lungo tempo
(in genere fino ad una settimana), se non la si vuole cuocere subito o la si
vuole cuocere in più volte.
La pasta essiccata si può
conservare anche in congelatore per circa un anno. In tal caso, quando la si
vuole cuocere, si mette in pentola acqua e sale e quando l’acqua giunge a
bollitura, si calano i “carrati” senza
farli prima scongelare.
Si utilizza poi 1 kg di
carne sgrassata di pecora. La si arrotola e la si mette a rosolare con olio
d’oliva. Quindi la carne rosolata si mette in pentola con acqua e salsa di
pomodoro e la si lascia bollire per 2 – 3 ore (a seconda della durezza della
carne), a fuoco lento, fino alla cottura della carne. Il sugo che si ottiene
deve essere piuttosto denso. Meno giovane è la pecora e più dura (ma più carica
di sapore) è la carne.
In un’altra pentola, portata
a bollitura l’acqua con il sale, si calano i “carrati” e li si porta ad una cottura al dente, e si scolano.
Infine si prende una
grossa zuppiera e vi si mette del sugo ottenuto con la carne di pecora, sul
quale si aggiunge un primo strato di “carrati”
cotti e formaggio pecorino, e si mescola (in genere con un cucchiaio di legno
di discrete dimensioni). Si ripete l’operazione con il resto dei “carrati” cotti, realizzando vari strati
successivi. A volte si aggiungono anche noci fatte a pezzettini.
Dopo avere ben mescolato,
i “carrati” si possono servire a
tavola.
Maggio 2016
emidiocivitillo@gmail.com