venerdì 11 novembre 2016

L'Upùpa, l'uccello che sembra una farfalla.





La natura affascina, "ma siccome esercita anche una forte attrazione turistica, essa ha pure una notevole rilevanza economica, specialmente per le zone interne, che hanno scarse possibilità alternative e  ripongono nel turismo buona parte delle loro speranze di sviluppo”.

L'UPUPA - Il suo nome si pronuncia sia ùpupa che upùpa. Si tratta di un uccello di media grandezza con penne del capo erigibili a guisa di cresta e con piumaggio fulvo a strie bianche e nere (famiglia: Upupidi).


Da poco più di un decennio la presenza numerica dell'Upupa sulle medie ed alte colline del Matese beneventano ha fatto registrare un sensibile incremento. Ciò desta sempre più attenzione e curiosità per questo uccello, e non sono pochi coloro che spesso esprimono il desiderio di saperne di più e di conoscerne almeno le principali caratteristiche.


L’Upupa e il merlo, che è uno degli uccelli più noti.

In precedenza l’Upupa veniva notata quasi esclusivamente all’epoca dei doppi passi regolari di marzo – aprile e di settembre – ottobre. Solo raramente venivano segnalati individui localmente e parzialmente estivi ed alcuni nidificanti. Adesso, invece, questo grazioso uccello torna sempre più numeroso, dall’Africa, nella nostra zona durante il periodo riproduttivo e nidifica da noi in buon numero.
Predilige i castagneti della conca di Cusano Mutri, fino a quelli dell’altopiano di Pietraroja, per la presenza di vecchi e grandi alberi nelle cui cavità spesso costruisce il nido, ma viene segnalato, anche se in maniera piuttosto sporadica, pure nella bassa valle telesina, come a San Salvatore Telesino e in zone limitrofe.






La sua presenza più numerosa nelle nostre zone può essere dovuta a diversi fattori, ma è ragionevole pensare che la riduzione dell’attività venatoria (la caccia) abbia contribuito non poco all’aumento numerico di questo selvatico.

L’Upupa ha abitudini molto solitarie e solo durante l’estate è possibile osservarla, a volte, riunita in piccoli gruppi. Le migrazioni sono precedute da dispersioni ed erratismi pronunciati. 

I quartieri di svernamento si estendono dal sud del Sahara fino alla fascia equatoriale africana. I primi individui tornano a comparire nel continente europeo già alla fine di febbraio – inizio marzo.



COME RICONOSCERLA

L’Ùpupa (upupa epos) è un uccello poco più grande di un merlo. Quando appare, il suo volo irregolare e curioso, le ali aperte, arrotondate e vistosamente barrate di bianco e nero fanno ricordare una grande farfalla. I battiti di ali si susseguono rapidamente, si arrestano per poi riprendere subito, la linea che descrive è ondulata, a balzi verticali, cadute e bordate laterali. Ha un piumaggio inconfondibile, la caratteristica più saliente è decisamente il ciuffo erettile con bordi neri che solleva e abbassa a seconda dei vari stati emotivi; anche il becco è particolare: più lungo della testa e ricurvo, di colore nerastro, con base e mandibola inferiore grigiastre. La livrea è di un bruno rosato, più carico nelle parti inferiori e nel ciuffo, inconfondibili sono ali e coda vistosamente barrate di bianco e nero, il sottoala e il sottocoda sono biancastri. In volo la barratura è inconfondibile ed è il principale elemento di riconoscimento insieme al ciuffo. La femmina è molto simile al maschio, petto sfumato maggiormente di bruno, ma pressoché indistinguibile da questo. Il maschio pesa  67 – 68 grammi, mentre la femmina ne pesa 51 – 58.





DOVE VIVE  

Il suo habitat è costituito da zone alberate della campagna nelle vicinanze o meno di villaggi, ambiente condiviso con altre specie come il  picchio verde e le civette. E’ facile osservare l’Upupa fra le siepi e gli alberi annosi come salici e querce. Anche da lontano è udibile il suo canto monotono. Non è difficile incontrarla lungo i sentieri in campagna ove ama prendere bagni di polvere. In Italia l’Upupa è abbastanza comune all’epoca dei doppi passi regolari: quello primaverile e quello autunnale. Le migrazioni sono precedute da dispersioni ed erratismi pronunciati. I quartieri di svernamento si estendono dal sud del Sahara fino alla fascia equatoriale africana. I primi individui tornano a comparire nel continente europeo già alla fine di febbraio – inizio marzo.


COSA MANGIA

L’Upupa ricerca il nutrimento sul terreno ove si muove rapidamente trotterellando, muovendo la testa ad ogni passo e beccando un po’ ovunque alla ricerca di insetti e le loro larve che solleva con il becco in aria e poi ingoia. Uccide le sue piccole prede con qualche colpo di becco e poi le ripulisce dagli involucri chitinosi.





I suoi terreni di caccia preferiti sono i pascoli, ove gli escrementi attirano una gran quantità di insetti. Si ciba principalmente di coleotteri e loro larve (carabi e cetonie), ortotteri (grilli e grillo–talpe, molto ricercati), bruchi, ditteri, formiche, ragni, lumache e vermi di terra.



COMPORTAMENTO NEL PERIODO RIPRODUTTIVO

Per tutto il periodo della riproduzione il maschio emette un suono continuo e monotono di 2 o 3 sillabe soffice e basso: “Hup – hup – hup”, accompagnato da un movimento verso il basso della testa, il becco quasi chiuso. 






Questo canto pur non essendo molto sonoro si può udire anche in lontananza, verso maggio si fa meno intenso e talvolta si protrae fino in giugno in coincidenza di covate tardive: quando è inquieto prende il volo lanciando un grido basso e rauco, un po’ soffocato, nei pressi del nido si esprime con diversi suoni gutturali. 





L’Upupa occupa di preferenza i contrafforti isolati e caldi delle zone di pianura e collinari nelle vicinanze di pascoli, lungo i filari di salici, di querce, negli orti, negli oliveti e nei piccoli boschetti che delimitano i pascoli. Non occupa mai zone di montagna. 





Il periodo della riproduzione è segnato all’inizio, da parte del maschio, dall’incessante canto, che comincia subito dopo il loro arrivo nei luoghi prescelti per la nidificazione, seguono i corteggiamenti caratterizzati dalle parate nuziali e dalle profferte di cibo del maschio alla femmina che si concludono con gli accoppiamenti. 




Il nido viene collocato all’interno di cavità naturali degli alberi, a volte dentro una loggia abbandonata da un Picchio verde, negli anfratti di muri, all’interno di costruzioni rustiche come granai o case abitate. Quasi sempre le uova vengono semplicemente deposte direttamente sul legno o sul suolo in punti ben riparati, senza particolari allestimenti di rivestimento del nido.

                                                                                                           Emidio Civitillo

giovedì 10 novembre 2016

Pietraroja (BN) e la peste del 1656, che a Napoli dimezzò la popolazione.

A Pietraroja, allo scopo di ricordare per sempre una terribile epidemia di peste di 360 anni fa, otto anni dopo una bruttissima carestia, furono incise nella pietra due scritte.
Le due scritte vennero scolpite alla base dei due stipiti della porta di destra (guardando la facciata della chiesa) delle tre porte dell'antica chiesa parrocchiale. A sinistra è scolpito fu la peste 1656” e a destra fu la carestia 1648”.











Pietraroja, chiesa parrocchiale di Maria Assunta in Cielo con l'antistante piazza San Nicola.


Dette scritte non richiamano facilmente l'attenzione dei visitatori perché non sono di lettura molto facile, anche a causa del fatto che vennero scolpite su pietra che ha subito l'usura del tempo. Le due scritte, forse pure per la posizione scomoda di chi le realizzò, vennero scolpite in maniera poco raffinata, ma comunque si riesce a leggerle in modo soddisfacente ed hanno bene assolto la funzione di tramandare ai posteri il ricordo di quei tragici eventi.
Appresi di queste due scritte per la prima volta quando ero giovane studente.
Me ne fu parlato in modo pacato, ma con un velato senso di tristezza, che mi fece rimanere impressi nella mente quel racconto e la tragedia vissuta allora dalla gente di Pietraroja e paesi limitrofi (e non solo), a causa di una terribile epidemia di peste che peraltro veniva da lontano.
Infatti la peste del 1656 colpì parte dell'Italia e in particolare il Regno di Napoli. A Napoli la peste provocò circa 240.000 morti su un totale di 450.000 abitanti; anche nel resto del Regno il tasso di mortalità oscillò fra il 50 e il 60% della popolazione.
Una storia molto brutta, che riguardò i nostri antenati.
Nei documenti storici risulta anche scritto che:
  •  … dal racconto di un testimone di allora, … “Napoli, da giardino d' Europa, divenne teatro di orrori mai visti. Nel terribile luglio del 1656 le cataste per le strade della città erano fatte di cadaveri e nei roghi bruciava carne umana, non immondizia.”
  •  L'azione di prevenzione fu spesso sottovalutata o addirittura ignorata da parecchie autorità locali, ecclesiastiche e laiche, che adottarono comportamenti ambigui, quando non irresponsabili, perché preoccupate in primo luogo della tutela delle proprie esigenze  personali.
Ne sono stati citati diversi esempi, tra cui:
  • Il comodo, ma imbarazzante riparo trovato, per meglio difendersi dal contagio, dal cardinale Filomarino nella certosa di San Martino a Napoli, in posizione isolata, circondata da vasti giardini che la separavano dal resto della città.
  • Il governatore di Benevento, sempre per meglio difendersi dal contagio, «rinchiusosi in casa, non dava udienza che dalla finestra e da sé faceva tutto, fino a lavare i piatti della sua cucina».
Le succitate scritte scolpite a Pietraroja, paesello montano molto noto, che si trova in una zona dei monti del Matese a grande vocazione turistica, sono state da me leggermente evidenziate nelle immagini allegate per una più agevole lettura durante la visualizzazione.

Ho inserito dette immagini anche nel mio "post" (o pubblicazione) su Pietraroja, che è stato (e continua ad essere) parecchio visualizzato.

Eccone il link:




Emidio Civitillo


emidiocivitillo@gmail.com